lunedì 25 agosto 2014

La scelta faticosa di combattere per la sostanza (e la concretezza) delle questioni

La mia storia politica nel segno del #cambiaverso (3)

Uno dei momenti più emozionanti del mio percorso politico fu in occasione della riunione annuale delle associazioni dei trapiantati per le feste natalizie del 2010 e 2011. Spiego perché: da assessore comunale alla sanità ci ero sempre andato fin dal dicembre 2004, ed ogni volta ero intervenuto nel mio ruolo: la festa viene ogni anno organizzata dall'associazione dei trapiantati di fegato e coinvolge tutte le persone legate al settore dei trapianti. Mi avevano invitato anche a fine 2009, quando ero tornato ad essere un semplice consigliere comunale, e mi pareva già molto. Ma nel 2010 non avevo più alcun ruolo amministrativo, ero tornato ad essere un semplice cittadino: essere invitato non solo a partecipare ma anche ad intervenire sul palco era del tutto non dovuto. Proprio per questo è stato un segnale importante: nell'assessore comunale di prima avevano riconosciuto una persona che aveva preso a cuore davvero il loro tema, che si impegnava sulla sostanza e non pro-forma. Insomma, era nato un legame che infatti non si è mai più interrotto.

Cose analoghe potrei raccontarle a proposito del rapporto con altre associazioni del mondo sanitario: lasciatemi citare con particolare affetto, oltre ai trapiantati (di fegato, di cuore, di reni), le donne dell'associazione "Il seno di poi" che affiancano ed assiste le persone colpite dal tumore al seno, le associazioni degli emodializzati, dei malati reumatici, dei diabetici. E poi AVIS e ADVS, ossia i donatori di sangue, e molti altri cui spero di non far torto per la mancata citazione singola. E al di là delle associazioni, singole persone che hanno potuto verificare sul campo il mio impegno sul merito delle questioni: nel settore sanitario e della prevenzione, in campo ambientale e sul tema dell'elettrosmog, sulle complesse tematiche della mobilità e dell'urbanistica, sugli animali, sui temi tecnici e dell'informatica.

Sia chiaro: sono conscio che esiste un divario fra il numero enorme di questioni di cui sarebbe bene occuparsi e quelle che si riesce umanamente ad affrontare, e anche a me sarà senz'altro capitato di passare di fretta su questioni che avrebbero meritato più tempo e risorse. Ma la mia scelta è sempre stata quella di combattere sul merito delle questioni, sulla concretezza dei temi anche quando sono scomodi o ti proiettano in un cono d'ombra, in un contesto in cui vedo che parecchi altri preferiscono fare diversamente.

Non son proprio rose e fiori

Non è detto che stare sulla sostanza dei temi porti sempre gratificazioni come quelle che ho citato all'inizio: al contrario, può risultare parecchio scomodo. Inoltre non è affatto detto che l'appeal giornalistico delle notizie sia direttamente proporzionale all'importanza delle questioni trattate (anzi, a volte sembra addirittura inversamente proporzionale).

Faccio un esempio: da assessore decisi di mettere a bando il servizio di prevenzione contro la zanzara tigre che fino al 2004 era stato gestito con affidamento diretto per un importo di oltre 1,4 milioni di euro all'anno. Come effetto della gara, risparmiammo a regime oltre 1 milione di euro all'anno, peraltro ottenendo un servizio migliore. Nessuno mi aveva chiesto di farlo, sui giornali la cosa uscì a malapena e il milione risparmiato fu immediatamente spostato su altre voci di bilancio. L'anno successivo i tagli lineari che si abbatterono su tutti i settori comunali non tennero in nessun conto dell'ottimizzazione di costi ottenuta: chi non aveva razionalizzato si ritrovò margini su cui agire, chi come me lo aveva fatto si ritrovò a dover tagliare ulteriormente. Dal punto di vista esterno negli anni successivi ebbi modo di verificare che praticamente nessun cittadino era informato di questa decisione e dei suoi effetti positivi, ma in compenso gli addetti del settore che si erano visti sfilare il servizio lo sapevano benissimo e non ne erano certo contenti (per usare un eufemismo). Sono pentito di averlo fatto? Assolutamente no. Ma sono del tutto cosciente che per come vanno le cose avrebbe "pagato" di più fare diversamente.

Quando sui giornali si leggono paginate su questioni di principio (se non di lana caprina) che hanno un impatto prossimo allo zero sulla vita concreta dei cittadini e ancor più sui flussi finanziari dei soggetti economici presenti sul territorio, è bene tenere presente che non è detto che sia solo un caso. Per un politico spesso paga di più fare "ammuina" e imbastire grandi battaglie su questioni che non toccano interessi sostanziali (meglio ancora se su temi su cui tutti sono d'accordo, almeno a parole) che mettere la faccia su temi su cui è alto il rischio di "farsi male". A maggior ragione se il partito che hai dietro su quei temi non si espone più di tanto…

E poi la sostanza è più difficile da raccontare. E' complicato per esempio parlare di Passante Nord senza conoscerne la storia ultra-decennale non priva peraltro di passaggi poco nitidi e per la quale ormai più che un articolo servirebbe un libro. E' faticoso entrare nel merito delle gestioni sanitarie senza rischiare di passare per il politico che si intromette in competenze che non sono sue. In generale è molto più semplice cavarsela con un "purtroppo non dipende da me" piuttosto che sbattersi per trovare una soluzione.

Ciò che rimane del nostro passaggio

Eppure cosa rimane del passaggio di ognuno di noi da cariche di responsabilità? Non le parole dette, non quello che di noi hanno scritto i giornali o detto le televisioni: rimangono i fatti. E se vogliamo essere più precisi, rimangono in particolare i fatti su cui siamo stati capaci di fare la differenza: perché a fare da segnaposto rispetto a questioni che comunque andavano avanti da sole sono buoni tutti, diciamocelo. I fatti su cui siamo stati capaci di fare la differenza: potrebbe essere una buona definizione di cambiamento (non a parole).

Quando passo dietro all'ospedale Maggiore e vedo la Casa del Donatore realizzata dall'AVIS, so di aver dato un contributo decisivo: il terreno era dell'AUSL ma l'AUSL non poteva dare il permesso ai lavori perché lo aveva promesso al Comune in tempi remoti (dai tempi del parcheggio di Largo Nigrisoli); il Comune non poteva dare il permesso perché il terreno non era (ancora) suo; dopo numerose riunioni i tecnici consigliarono di attendere la futura variante urbanistica dell'area, e se avessimo fatto così probabilmente oggi staremmo ancora aspettando.

Il pronto soccorso ortopedico notturno è da alcuni anni aperto al Maggiore e non più al Rizzoli come in passato. Per 12 anni però si è andati avanti facendo la spola di notte con le ambulanze fra Maggiore (trauma center e punto di arrivo dell'elicottero) e Rizzoli (tradizionale PS ortopedico, era l'unico aperto di notte), e nessuno pareva sentire l'urgenza di sistemare la questione, finché non la posi io con forza sul tappeto.

Mentre ricordo che alla mia richiesta di spostamento dell'ambulatorio Sert dal S. Orsola, dove confinava col vecchio PS, le prime risposte furono "non c'è riuscito nessuno in 28 anni, pensa di riuscirci lei?". 28 anni, da tanto durava la sistemazione "provvisoria" del tutto inidonea di quello spazio.

Lasciatemi citare il tavolo partecipato per la gestione delle antenne per la telefonia mobile, che avviai nel 2004 e che terminò con me nel 2009: esempio splendido di partecipazione democratica e di concertazione delle scelte, che non ebbe purtroppo seguito. Nel frattempo, la legislazione nazionale ha ulteriormente spostato l'equilibrio a favore dei gestori e la Regione ha perso competenze: il tema è decisamente da riprendere…

Sono solo alcuni degli esempi di scelte fatte e decisioni prese su cui posso dire con serenità che se ci fosse stato qualcun altro al mio posto le cose sarebbero andate diversamente. E sono anche i pensieri che mi confortano nei momenti bui dell'impegno politico.

Una lotta contro germi che sono anche dentro di noi

D'altra parte, io ho cominciato il mio impegno amministrativo facendo gavetta all'opposizione dell'allora giunta Guazzaloca. Non è una cosa comune: dalle nostre parti il PD (e chi l'ha preceduto) è tradizionalmente forza di governo, e la maggior parte del nostro personale politico ha sempre e solo governato. Invece fare opposizione ti insegna molto, anche in termini di umiltà.

Questo pendolo fra sostanza ed apparenza, fra concretezza e "ammuina", fra verità e finzione è una malattia della politica su ampia scala, ma che a Bologna ha radici più profonde che in altri luoghi. Nell'aprire i lavori di un'assemblea nazionale a Bologna dieci anni fa, dissi: «E' la nostra capacità di costruire, di andare al merito delle questioni vere, che sarà dirimente. Subito dopo il 1999 qualcuno disse che Guazzaloca era un pezzo di noi, e lo disse quasi col rimpianto di non averlo candidato noi. In realtà io credo che Guazzaloca e la sua amministrazione rappresentino l'espressione compiuta di quel declino che era in parte anche dentro di noi. L'amministrazione Guazzaloca è la pratica consociativa senza progetto, l'apologia della bolognesità senza più accoglienza, la pretesa di una democrazia senza confronto. Quello che ci serve è un cambiamento vero, non solo di facciata. Dobbiamo essere capaci di individuare i germi negativi che ancora sono nascosti dentro di noi, dei giochi a somma zero, dei programmi solo per bellezza.»

Dissi queste cose in un momento di grandi speranze, che oggi sappiamo non essere state tutte coronate dal successo. Anzi, la crisi bolognese di quella stagione la ritroviamo a distanza di anni nell'attualità di altre città della nostra Regione. E' un segno che quei "germi negativi che sono anche nascosti dentro di noi" sono forse più endemici di quanto potevamo supporre, e la lotta contro di essi non solo non può fermarsi ma deve al contrario intensificarsi. E' questo il modo giusto per qualificare il cambiamento, che per essere tale non può prescindere dalla sostanza.

La scelta faticosa di combattere per la sostanza (e la concretezza) delle questioni
Giuseppe Paruolo

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lunedì 18 agosto 2014

La mia esperienza di testimone del cambiamento in anni difficili per Bologna

La mia storia politica nel segno del #cambiaverso (2)

palaccursioParliamoci chiaro: c'è differenza fra chi si è sempre bene o male adeguato e chi invece ha combattuto per proporre un cambiamento, come testimone che un modo diverso di fare politica è possibile.

E' vero che aver attraversato anni turbolenti – gli ultimi 15 anni per Bologna lo sono certamente stati – non è di per sé nè un merito né un demerito, ma è comunque una ottima occasione per valutare parole e comportamenti di chi ha operato in politica.

In vista della mia ricandidatura come consigliere regionale, non solo accetto di buon grado ma sono io a chiedere di essere giudicato sui fatti, anche da questo punto di vista. E per questo voglio richiamare tre esempi molto concreti e impegnativi.

La sconfitta del 1999 contro Giorgio Guazzaloca

Nel marzo 1999 la coalizione bolognese dell'Ulivo indisse le primarie per confermare l'indicazione di Silvia Bartolini (già ampiamente acquisita dai partiti) come candidata per le amministrative del giugno di quell'anno. Quella fu per me la prima occasione di ribalta pubblica: ero un semplice militante del Movimento per l'Ulivo, sconosciuto ai più, e mi candidai sostenuto dall'associazione Il Mosaico. Oltre a me si candidarono Maurizio Cevenini e Giorgio Celli, oggi entrambi scomparsi e che ricordo con affetto.

Cosa dissi in quelle primarie? Ecco un breve estratto del volantino che mi accompagnò in quell'occasione (sempre low cost come tutte le tappe successive): «A Bologna c'è un patrimonio di buoni risultati dell'amministrazione cittadina che occorre tutelare, ma anche una crescente stagnazione ed un netto abbassamento della qualità della vita, segni evidenti dell'incapacità di guidare la città nelle grandi sfide. L'Ulivo non può proporre alla città un vero rilancio senza riconoscere errori ed insufficienze del sistema che ha finora governato. Se l'Ulivo non saprà farsi interprete del cambiamento, il rischio è che gli elettori cerchino il cambiamento votando a destra o rinuncino a votare. Queste elezioni primarie, arrivate dopo un lungo braccio di ferro all'interno della coalizione, sono tardive, frettolose e strumentalizzate da partiti che già discutono gli equilibri di potete successivi al risultato che ritengono scontato. Ma le primarie sono anche una importante indicazione di metodo, e devono costituire un precedente per il futuro.»

Parole chiare e forti, ma sul momento i politici esperti dell'epoca mi risero in faccia: l'idea di poter perdere a Bologna sembrava solo una sciocchezza. Le primarie, come da copione, furono vinte largamente da Silvia Bartolini. Io presi oltre un migliaio di voti, e grazie a quelli riuscii a candidarmi nella lista dell'Asinello per il consiglio comunale alle elezioni amministrative, dove arrivai secondo degli eletti dopo il capolista. Ma come noto le elezioni le vinse Giorgio Guazzaloca, dimostrando purtroppo che le mie parole erano state fin troppo profetiche.

La candidatura di Sergio Cofferati nel 2003

Bologna 2004 era il nome del percorso che avevamo messo a punto per avvicinarci alle successive elezioni e per individuare il nuovo candidato sindaco. C'era dentro l'idea di una nuova partecipazione democratica, anche per corrispondere alle istanze dei movimenti sorti in quegli anni, come la Sveglia 6:30 e la rete di associazioni Unirsi. Io ero fra coloro che tiravano le fila, perché – mentre mi facevo le ossa come consigliere di opposizione a Bologna – ero diventato segretario provinciale dell'Asinello prima e della Margherita poi: quel ruolo mi consentiva di portare avanti il cambiamento ad un livello diverso.

Per scegliere il candidato sindaco volevamo costituire una grande assemblea (un terzo partiti, un terzo ruoli istituzionali, un terzo associazioni e società civile). Non era una strada facile, e forse la debolezza intrinseca era non avere già in mente il candidato, ma che cambio di verso sarebbe stato se avessimo messo in piedi un processo di partecipazione avendo già in mente il candidato preconfezionato da proporre? Sarò stato forse un po' naif, ma per me l'innovazione era proprio il metodo democratico e l'assenza di accordi segreti precostituiti.

Poi a Roma qualcuno pensò bene di scegliere il candidato per noi, e sui giornali cominciarono ad uscire le anticipazioni relative all'arrivo di Sergio Cofferati: di lì a poco il centrosinistra bolognese esplose in anticipazione, con tanti che attendevano Cofferati come un messia. Ma lui fece sapere in modo del tutto inequivoco che avrebbe accettato solo un invito a essere lui il candidato, non certo a partecipare a una competizione in cui misurarsi potenzialmente con altri.

A me non pareva accettabile buttare via tutto: se Cofferati era interessato, per me poteva partecipare e sottoporsi alla scelta dell'assemblea. Ma ero praticamente il solo a pensarla così: in quei giorni continuavo ad incontrare persone che chiedevano di annullare ogni processo partecipato per cogliere l'opportunità di avere come candidato Cofferati. Quasi tutti gli altri partiti si schierarono su questa posizione ed anche le associazioni, con cui avevamo costruito tutto lo schema di partecipazione, ci chiesero di mettere tutto da parte per accoglierlo. Tutto culminò con una riunione fiume di 6 ore nella sede di via Caldarese, nella quale io alla fine mi astenni sulla scelta di chiedere a Cofferati di fare il candidato senza passare da alcun vaglio partecipato.

Non fu una scelta indolore e senza conseguenze: per alcuni anni mi fu imputato di aver opposto resistenza all'arrivo di Cofferati a Bologna, quando la mia era anzitutto una obiezione di principio e un'affermazione di coerenza. Curiosamente, fra coloro che al tempo mi investirono in modo perfino aggressivo per superare le mie perplessità, vi sono alcuni che anni dopo tornarono ad aggredirmi con analoga veemenza ma stavolta per dirmene di tutti i coloro contro il sindaco Cofferati, della cui giunta io facevo parte. Questo a dimostrare quanto la scarsa memoria spesso si accompagni al la strumentalizzazione del  passato i cui si confondono cause ed effetti, responsabili e innocenti.

Le primarie del 2008 di Flavio Delbono

A cinque anni di distanza, l'appeal del sindaco Cofferati nei confronti della città era molto appannato; dopo aver annunciato di volersi ricandidare, all'improvviso comunicò la scelta di volersi trasferire altrove. Il PD reagì indicendo le primarie, ma contemporaneamente cedette alla tentazione di decidere a tavolino chi doveva vincerle: il candidato predestinato era in quel caso Flavio Delbono.

Non sto qui a fare l'elenco di tutti i nomi di peso in città e della dirigenza del PD quasi al completo che ha sostenuto Delbono, dico solo che io non c'ero perché sostenni Virginio Merola. Né posso mettermi qui a raccontare nel dettaglio le vicende di quel periodo, per vari motivi: chi è incuriosito temo dovrà aspettare il libro che mi sono ripromesso di scrivere quando avrò "salutato la curva" (per dirla con la nota metafora renziana).

Basti però sapere che io sarei stato nella condizione di avere un futuro politico assicurato (con la conferma in giunta) se avessi sostenuto il candidato "di tutti", ma scelsi del tutto liberamente di non farlo. Flavio Delbono divenne sindaco nel 2009, e io che ero stato rieletto consigliere comunale di Bologna fui tenuto fuori da ogni incarico, pagando le conseguenze della mia scelta.

___________________

Sono tre episodi specifici in cui ho fatto scelte scomode e controcorrente. E non sto ad aggiungere che anche scegliere di sostenere Matteo Renzi nel 2012 ai tempi del "tutti per Bersani" non è stata esattamente una passeggiata, ma quella in fondo è cronaca recente.

Sono prove che dimostrano che c'è chi in nome del cambiamento ha pagato prezzi in prima persona.

In un contesto in cui praticamente tutti parlano di cambiamento, ma lo fanno soprattutto a parole, permettetemi di dire che fa una certa differenza.

La mia esperienza di testimone del cambiamento in anni difficili per Bologna
Giuseppe Paruolo

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giovedì 14 agosto 2014

Altro che nativo, io sono un partigiano fondatore del Partito Democratico

La mia storia politica nel segno del #cambiaverso (1)

bandierepdHo il massimo rispetto di chi è in politica da poco ed è dunque "nativo" del PD e non un "ex" dei partiti precedenti. Ma nativo non significa necessariamente essere un alfiere del cambiamento utile. Anzi, bisogna proprio smettere di parlare di cambiamento senza qualificarlo, e peggio ancora di usare l'etichetta "nuovo" in modo immotivato e quindi tendenzialmente mistificatorio.

Io sono nato negli anni del boom demografico, quindi ben dopo la guerra. Non mi sognerei mai di andare a dire ad un partigiano, che ha combattuto la guerra di liberazione, che è meno legato di me alla Repubblica Italiana solo perché io ne sono cittadino da quando sono nato! Al contrario, tutti dobbiamo ricordare che è grazie a chi in quegli anni ha combattuto contro la dittatura (con le armi ma non solo) che oggi siamo qui a parlarne: è una differenza non da poco.

In modo analogo, non posso negare un certo fastidio quando mi vedo cucite addosso etichette del passato, soprattutto da chi ha interesse a confondere le acque perché il giudizio non avvenga sul merito delle questioni ma su stereotipi preconfezionati. Io la mia storia politica la rivendico per intero, compreso il mio impegno nella Margherita negli anni precedenti il PD. Oggi c'è il Partito Democratico e vivo il presente non solo perché è giusto così m anche perché sono a tutti gli effetti uno di coloro che questo presente ha contribuito a costruirlo.

I partigiani che ho avuto l'occasione di conoscere mi sono apparsi in genere pazienti e tolleranti, purché non gli si toccassero i valori per cui avevano combattuto. Se mi si passa l'analogia, lo stesso vale anche per chi come me si è impegnato da sempre a costruire il Partito Democratico ed è quindi un partigiano e fondatore di questa storia. E' poi anche il motivo per cui sono qui ad impegnarmi, perché vorrei che questo partito trovasse un compimento pieno e soddisfacente (per i cittadini).

Col massimo rispetto sia per i nativi che di tutti coloro che vengono dall'impegno nei partiti che hanno preceduto il PD, osservo che per chi ha una storia è più facile cercare traccia di un impegno fattivo per il cambiamento: perché la storia di ognuno è la prima testimone della serietà di un impegno.

Un po' di storia

Ho cominciato ad impegnarmi in politica al liceo, in una lista indipendente (proto-ulivista). Finito il liceo, io cercavo il PD ma non c'era. Siccome non mi ritrovavo né nel PCI né nella DC di allora, mi sono iscritto all'Università e ho smesso di fare politica. Ho ripreso dopo quindici anni all'epoca del primo governo Berlusconi perché mi pareva evidente che fosse ormai il tempo di un partito che mettesse insieme sinistra e cattolici democratici superando gli antichi steccati. Quando poco dopo è arrivato il movimento per l'Ulivo mi ci sono "naturalmente" impegnato, continuando poi nei Democratici dell'Asinello, poi confluiti nella Margherita e infine nel Partito Democratico, l'approdo a lungo cercato e per cui mi sono da sempre impegnato.

Fra il 2000 e il 2004 sono stato segretario provinciale dell'Asinello prima e della Margherita poi, ma sempre impegnato per andare oltre (per cambiare verso, diremmo adesso). Per dirne una, io sono stato uno dei pochissimi (una decina, mi pare) che al termine di una tesissima assemblea nazionale della Margherita (quella passata alla storia per la citazione di "pane e cicoria"), al voto per appello nominale è sfilato davanti alla presidenza a dire "no" alla relazione con cui Francesco Rutelli proponeva di non fare la lista unitaria dell'Ulivo.

La mia propensione al cambiamento non ha sempre mietuto entusiasmi negli ambienti più "strutturati", anzi al contrario, ho sempre dovuto lottare contro robuste opposizioni. Ma ho sempre pensato che un cambiamento sincero non possa fare a meno di incontrare delle resistenze. Non è stata una passeggiata ad esempio diventare segretario della Margherita dopo la fusione fra Asinello e PPI: Bologna fu la sola grande città dove la Margherita era guidata da un segretario proveniente dall'Asinello e non dal PPI, che era arrivato all'appuntamento con una organizzazione molto più robusta. Ci sarebbero tante cose da raccontare, e prima o poi lo farò…

Mi fa sorridere pensare che un tempo nella Margherita secondo qualcuno dovevo farmi perdonare il fatto di non essere stato democristiano, e che oggi nel PD qualcuno pensa che debba farmi perdonare il fatto di essere stato (come Renzi, peraltro) nella Margherita. E' un modo di ragionare che non ho mai capito, o meglio che non ho mai condiviso.

A me non è mai importato nulla delle etichette e delle provenienze, a me interessano le persone e la sostanza. Fra coloro che sento più vicini c'è chi è stato a suo tempo nella DC e chi invece ha avuto la tessera del PCI fin dalla culla, c'è chi ha cominciato a fare politica da poco e chi l'ha fatta da una vita, c'è chi sente propria la vita del partito e chi (ancora) non si è mai iscritto: ma sono tutte persone vere che badano alla sostanza e cercano di costruire il cambiamento ogni giorno. Come faccio io.

Altro che nativo, io sono un partigiano fondatore del Partito Democratico
Giuseppe Paruolo

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lunedì 11 agosto 2014

Il coraggio di metterci la faccia

montagnacoraggioStimolato dai racconti di una figlia appena rientrata dalla route nazionale degli scout dell'Agesci, sono andato a cercare la "carta del coraggio" che in questi giorni hanno discusso e preparato. Anche se la versione definitiva del documento non c'è ancora, emergono concetti sani e forti, ed è bello che tanti giovani si siano sentiti coinvolti da parole che in realtà parlano ad ognuno di noi.

Siamo noi che dobbiamo avere il coraggio di compiere il primo passo verso il cambiamento che vogliamo vedere: la nostra goccia è indispensabile al mare. Decidiamo di impegnarci nella politica non come osservatori passivi ma come cittadini attivi. Vogliamo dare una veste nuova, più forte al valore della legalità. Esiste un territorio che ci interpella incessantemente. Ci impegniamo a riscoprire la vera bellezza del nostro territorio e dell'ambiente. Ci impegniamo nel lavoro, motore della dignità dell'individuo, per uscire dalla spirale del mero guadagno. Il coraggio di una vita semplice. Ci impegniamo a vivere coraggiosamente e con serietà una scelta consapevole di amore autentico, senza discriminare le persone…

Fra i tanti che possono a giusta ragione sentirsi compresi e stimolati da parole come queste c'è anche chi come me ha scelto di rimboccarsi le maniche e si è impegnato in politica. Anche per la politica – se fatta in un certo modo – ci vuole coraggio.

Non è semplice impegnarsi per il cambiamento, perché di cambiamento tutti parlano e pochi hanno la pazienza e la capacità di andare a vedere nel merito cosa significa. La realtà rischia di sfuggire in mezzo a fiumi di parole, il fumo e l'apparenza rischiano di fare sembrare i gatti tutti bigi, ma se vogliamo che questa notte finisca non si può proprio girarsi dall'altra parte e lasciare perdere.

Presto si tornerà a votare per la Regione, e io intendo (ri)presentarmi. La mia disponibilità è stata già accolta dalla direzione bolognese del PD alla fine di luglio. E nell'attesa che dopo il periodo feriale il tema entri nel vivo, vorrei usare la (relativa) tranquillità di questi giorni per cominciare a mettere giù un po' di storia. Perché prima di cominciare a parlare di progetti e di futuro, vale la pena rendere conto del cammino fatto fin qui. Col coraggio (appunto) di metterci la faccia. A presto!

Il coraggio di metterci la faccia
Giuseppe Paruolo

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